Lavorare per serie di immagini - un procedimento tutt'altro che eccezionale nell'arte contemporanea, a cominciare almeno da Monet - è congeniale alla poetica di Angelo Titonel. Che si è appunto sempre dedicato all'approfondimento di singoli soggetti - e, in essi, di problemi di linguaggio e di significato - in sequenze conseguenti: da quella, del 1962, agli inizi della sua attività di pittore, puntata su di una figura femminile (la "Giovanna d'Arco"), al recentissimo, accanito identi-kit, dal 1998, del volto, e attraverso esso della personalità, di Padre Pio1.
Sempre, tuttavia, in siffatte analisi, l'artista ha articolato la sua ricerca entro una varietà di tagli e positure, di soluzioni formali, di elaborazioni strutturali che investono l'oggetto della sua operazione, figure o cose, talora anche sì analoghe o contigue, ma differenziate. Nella serie della "Giovanna d'Arco" il referente restava il medesimo (in realtà non una Giovanna d'Arco, ma una statuetta precolombiana). Veniva però internamente modificato, nei successivi stadi, da una manipolazione prevalentemente lineare debitrice delle geometrizzazioni del Picasso del 1907, significamente guardato da Titonel in quella fase di avvio, dopo anni di applicazione alla grafica pubblicitaria, e non solo su di un piano linguistico, ma nelle sue stesse connotazioni primitivistiche, con una scelta di campo premonitrice. Nell'intensa (ma insieme distaccata, come comporta un affondo analitico) galleria di ritratti del Beato di Pietrelcina, a fronte dell'omogeneità di stile e di soggetto quel che mutava era invece l'espressione, e talora anche la gestualità, del personaggio, oltre che l'inquadratura dell'immagine, come in una catena di istantanee. Analoghe, in un certo senso, tra i finali anni Settanta e i primi Ottanta le "messe in posa" di Stazioni e Locomotive, dove peraltro il cambiamento investiva anche il protagonista, seppure all'interno di un'affinità tematica. Come era avvenuto qualche tempo prima, all'inizio degli anni Settanta, nei ripetuti primi piani di "Sub", Corridori automobilistici, Giocatori di rugby.
Questa volta, nella serie documentata nel presente volume, l'immagine di partenza è uno stereotipo, sempre uguale. Gli interventi formali si esercitano su di esso senza intaccarne l'identità, ripetuta come un Leitmotiv che nella sua immutabilità ferma un gesto espressivo, in una dimensione senza tempo, che pare contraddire il dato iniziale: un atleta colto con l'obbiettivo fotografico dall'artista alla metà degli anni Ottanta allo Stadio Olimpico di Roma, subito dopo la vittoria, con il braccio destro alzato e la mano aperta in segno di esultanza e di saluto: una visione vitale, carica di energia, che tende l'intero corpo e si esprime icasticamente appunto nella mano, però da Titonel assolutizzata, resa esemplare, archetipica. L'immagine di un vincitore si trasforma in quella del vincitore: dal particolare al generale, dal contingente all'universale.
Mutano le inquadrature, i tagli, anche proprio della figura, con l'evidenziazione di particolari diversamente collegati ed enfatizzati nella collocazione sul piano dell'immagine intera o parziale, isolata o iterata, nella positura eretta d'origine ma anche inclinata diagonalmente o proposta in orizzontale. Con procedimenti primariamente finalizzati alla decantazione, all'isolamento dal contesto accidentale, alla sintesi, che trasformano la figurazione in un'icona emblematica, che conserva la freschezza della registrazione fotografica, travalicandola.
Molto interessante è seguire, come le riproduzioni di queste pagine consentono di fare, il lungo, complesso percorso dell'artista attorno a questo tema attraverso i numerosi dipinti realizzati tra il 1999 e il 2000. A cominciare da quelli di minori dimensioni, che non sono dei bozzetti delle composizioni maggiori. Essi hanno una loro evidente autonomia, e non solo per la diversità dello spazio dell'immagine che inevitabilmente in qualche modo li determina. D'altronde i grandi quadri si sviluppano da qui, presuppongono questa fase precedente, che è da valutare inevitabilmente anche in rapporto al dopo. Si può così constatare che spesso nei lavori più piccoli, pur entro dislocazioni della figura base in contesti d'insieme che preannunciano le soluzioni maggiori, la flagranza "realistica" dell'immagine fotografica resta più viva. Come del resto si può verificare nei primi lavori su carta, ove è anche dato di precorrere la direttrice che porterà alle immagini finali, ben chiara quindi a Titonel fin dall'inizio, nei presupposti almeno. Ecco infatti che dall'immagine fotografica riportata testualmente, seppur già ritagliata dall'ambiente che originariamente la comprendeva, si passa ad una sua progressiva essenzializzazione, con reticenze e annullamenti di parti secondarie (le righe e le scritte del costume di gara) attraverso la trasposizione grafica dei contorni, prima tracciati in bianco e nero, quindi riempiti da campiture differenziate (colori uniformi, ma diversi, per la maglietta e i calzoncini), infine trasformati in margini di sagome unitarie, quasi delle ombre proiettate sulla superficie.
Per tornare ai dipinti più piccoli, vero laboratorio di ricerca, ricco e diramato, di questa nuova fase di Titonel, è significativo rilevare come sia in essi spesso presente un'insistita materia cromatica informaleggiante, stesa con pennellate dinamiche, veloci, la cui fisicità - in certi casi molto evidente, tale da produrre dei veri rilievi sul piano - entra in dialettica con la figura dell'atleta, raffreddata dall'origine fotografica, fino non di rado ad interferire con essa, attraverso sconfinamenti e sovrapposizioni. Sono le ragioni della pittura, della manualità, della corporeità che la denotano, di cui resta peraltro traccia intenzionale anche nelle grandi tele, in genere tuttavia con un sensibile attutimento e dell'urgenza espressiva e, soprattutto, degli spessori. Attenuazione che peraltro non cancella la presenza e quindi il valore di questa componente meno mediata e distaccata, da considerare nel contesto dell'operazione di sintesi e di allontanamento dal contingente che denota l'intero ciclo delle opere qui pubblicate.
Già nelle righe precedenti m'è capitato di usare il termine archetipo che, a questo punto, va necessariamente ripreso, trattandosi del nodo centrale dell'impegno odierno dell'artista. Che è d'altronde preparato da tutto il suo precedene lavoro, come Titonel stesso tiene a sottolineare in una testimonianza inviatami in occasione di questo nostro nuovo incontro, che mi coinvolge fortemente anche proprio per la rilevanza e continuità di tale densità problematica. "Il filo conduttore della mia ricerca artistica, fin dall'inizio", scrive il pittore in quell'appunto, "è stato quello di ridurre alla forma più elementare quello che andavo ad indagare, sia che fosse l'uomo o l'oggetto. Questo, nell'essenza, permette a me e all'osservatore di entrare in un rapporto più intimo, spirituale o trascendente con la nuova forma, non più contaminata da sovrastrutture". "Ho cercato", aggiunge Titonel, "di mettere ciò in atto anche attraverso la figurazione realista, creando con l'atmosfera e il colore una sospensione psichica, metafisica. La simbologia dei segni o delle forme, spesso con la mediazione materica, mi hanno aiutato ad esprimermi estrinsecando l'archetipo nato dall'inconscio".
La "metafisica" di cui scrive l'artista non è naturalmente quella filosofica. Il riferimento è a de Chirico, ai procedimenti del quale Titonel s'è autonomamente, e con finalità proprie, rifatto in passato in una figurazione solo apparentemente "realistica", se per realismo si intende qualcosa che privilegi la rappresentazione della realtà, la mimesi, nelle sue più diverse accezioni, comprese quelle più in voga tra gli anni Sessanta e i Settanta, allorché appunto Titonel segue questa via, tra il 1968 e i primi anni Ottanta. E penso, ovviamente, alla "pop art" e all'"iperrealismo", negli originali statunitensi e nelle vulgate europee. Dai quali tutti il nostro artista si distingueva, come d'altronde da precedenti - certo, questi, da lui considerati - quali la "Nuova Oggettività" tedesca, in un ambito di "Realismo magico", e il "Precisionismo" americano.
In quei dipinti, sopra ricordati per la "messa in posa" che fermava i soggetti in una "sospensione", appunto, come innaturale, priva di vibrazioni, di aria addirittura, Titonel già tendeva, come ora nella serie de Il Vincitore, ad "un simbolismo senza apparato simbolico". La definizione è di Duilio Morosini2, che mostrò di comprendere pienamente il senso del lavoro di allora del pittore in una serie di scritti di grande acume, utili anche oggi per entrare non superficialmente nel suo mondo, per coglierne la coerenza, al di là di scelte di linguaggio certo differenziate. Morosini seppe sottolineare la non passività delle immagini di Titonel, ad un esame distratto così scoperte, immediate, verisimili. "Anche là ove tutto vi può sembrare, a prima vista, vicinissimo allo sguardo", avvertiva il critico, "tutto finisce con l'apparirvi lontanissimo da esso, nell'atto stesso in cui vi accingete a considerare la strutturazione logica della realtà che vi è presentata. In altre parole, l'oggetto da percepire vi viene proposto simultaneamente sotto la doppia specie del percettivo e del simbolico, e l'inderogabilità delle forme è cresciuta in misura direttamente proporzionale alla polivalenza dei significati"3. "La componente principale" di quei dipinti andava per Morosini individuata "nella volontà di scavalcare l'indistinto, l'episodico, il caduco, per isolare una situazione di fatto dal suo contesto"4. Ed era in questo senso che veniva utilizzato il termine di "metafisica", per quelle opere ormai remote come per quelle attuali ambiguo e pericoloso, non diversamente da concetti quali archetipo o primordio. Peraltro convenienti al lavoro, a tutto il lavoro, di Titonel.
Così, già nei giovanili disegni della "Giovanna d'Arco" il procedimento tende ad una figurazione elementare, primitiva, come altre immagini subito successive5. Fino, nel 1967, al trittico dedicato al Nascere, al Vivere, al Morire e ai numerosi studi ad esso collegati, la cui tematica, primaria come nessun'altra, è concretata in forme germinali e organiche, con ripercussioni di certe fluidità surrealisteggianti di un Moore o del medesimo Picasso. E per portarci più a ridosso dei lavori cui è dedicato questo volume, negli anni Novanta Titonel ha compiuto la scelta radicale di applicarsi ad una pittura veramente elementare, sin dalla rinuncia, per lui non nuova, a colori che non fossero il bianco e il nero, per far affiorare alla superficie memorie ancestrali attraverso segni cifrati, misteriosi, che evocano l'inconscio e l'originario con una significanza criptica, e proprio in forza di ciò largamente allusiva. Con un azzeramento, in ogni caso, che le ultime opere ribaltano, verso una figurazione pregna di risonanze e di echi multipli e polidimensionali, tuttavia solo all'apparenza più scoperta.
Il legame tra Il Vincitore che si accampa perentorio sugli ampi supporti o che è proposto in situazioni differenti, rispettando però sempre l'immagine-matrice, che viene diversamente collocata e tagliata, e i segni arcani dei precedenti dipinti è strettissimo, sul registro dell'emblematicità, dell'archetipicità, e perciò del rimando a significati che non si esauriscono in quello che si vede e di cui l'immagine è solo un "simbolo". Da decifrare anche nel Vincitore, quindi. E in un certo senso con ancora maggiore difficoltà. Prima di tutto per il rischio, da non sottovalutare, insito in una figurazione esplicita, o apparentemente tale, che può far presumere di non nascondere nulla e quindi non incoraggiare ad una ricerca che vada oltre quanto immediatamente si percepisce. Poi per la presenza di assonanze culturali, anche proprio di immagine, particolari, che potrebbero indurre a interpretazioni fuorvianti, come la fissità della posa e la scelta stessa del soggetto. Al di qua delle radici classiche, e nonostante l'"oggettività" di comunicazione derivante dall'uso, seppur mediato, della fotografia (e nonostante, si potrebbe aggiungere, i frutti della pratica nella grafica pubblicitaria, che "ringiovaniscono" il messaggio), può affacciarsi il ricordo di altre, più recenti "mitologie", appunto anche risolte nell'esibizione del corpo dell'atleta in un'esemplarità metastorica veicolante ideologie che da essa potevano ovviamente trarre profitto. Questioni tutte, queste, che, in positivo, evidenziano la ricchezza di implicazioni culturali di questo ultimo ciclo di Titonel, per il quale ancora una volta possono valere le osservazioni di trent'anni fa di Morosini, con le quali, per la loro intelligenza e utilità, mi piace concludere6.
Riferendosi in particolare ad un dipinto del 1969 che proponeva dei caschi sopra dei cerchioni d'auto sovrapposti (Totem), il critico notava come "già a quella composizione" non fosse "estranea l'idea di suggerire una connessione tra l'immobilità, la vacuità o la 'terribilità' del fittizio personaggio creato a partire da un semplice accumulo di oggetti e le forme, di secolare eredità culturale, del busto e dell'erma. L'idea, insomma, di stimolare nello spettatore la consapevolezza della relatività dell''inedito' che la contemporaneità gli propone; [...] l'idea di invitare lo spettatore a riflettere sul fatto che, visto sotto questa luce, non c'è 'oggetto moderno' che non abbia alle sue spalle una storia, al cui contesto non può sottrarsi". "Ad un simile disegno, creativo e critico", continuava Morosini, "vanno rapportati molti quadri recenti" di Titonel: "in modo particolare l'intero ciclo di 'ritratti' o composizioni di corridori che sono cosmonauti", ove sono visibili "delle tute che, per l'andamento 'modulare' delle loro pieghe e per la loro tessitura cromatica [...], sono lembi di materiale sintetico e, insieme, di tradizionali drappi, panneggi, 'sudari'". Con un "movimento analogico che si dirama in profondità - in strati subito identificabili o vagamente 'imperscrutabili' - nello spessore della storia dell'arte [...] quale storia dell'uomo". Rimandi "ad esperienze di cultura che, per quanto in misura estremamente variabile, giacciono nel fondo della coscienza di ogni uomo e sono suscettibili di stimolare e accrescere le sue facoltà di giudizio". Ed è appunto il caso di questi Vincitori.
1 Cfr.: F. Rossetti, Padre Pio, con 81 dipinti di Angelo Titonel, Edit Faenza, 1999.
2 D. Morosini, Titonel, catalogo della mostra, Galleria Michaud, Firenze 1971, p. 10.
3 D. Morosini, Titonel, catalogo della mostra, Galleria La Seggiola, Salerno, 1972.
4 Ibidem.
5 Cfr. le riproduzioni in G.G. Lemaire, Titonel, memorie inquiete, Edizioni Carte Segrete, Roma 1989, pp. 21-22, ill. 1-7.
6 D. Morosini, Titonel, 1971, cit.