"Un quadro che descrivo - scriveva Diderot - non è sempre un buon quadro; quello che però non descrivo è certamente un cattivo quadro" (Salon de 1767).
L'affermazione è drastica. Ciò che non si può tradurre in concetto non farebbe parte della buona pittura. Secondo il filosofo francese, la leggibilità di un quadro è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, della sua qualità estetica. La sua refrattarietà alla traduzione è invece quanto basta per liquidarlo come un fallimento espressivo. Da questa assimilazione del visibile al leggibile, del quadro al testo, della raffigurazione a linguaggio, la critica d'arte si è mai veramente liberata? Certamente l'onore che l'umanesimo riservò alla pittura innalzandola al rango di arte liberale ha contribuito in modo decisivo a questa equivoca riduzione del senso della raffigurazione al significato che essa veicola. Dopotutto le arti liberali, sono in primo luogo arti del discorso ed il celebre slogan umanista ut pictura poesis non fa che confermare questo primato della parola. La critica contemporanea si è dovuta misurare con innumerevoli trasgressioni del tradizionale spazio rappresentativo. Tuttavia essa non ha mai messo seriamente in questione questo criterio ermeneutico. Una categoria come quella dell'astrazione, ad esempio, nella sua apparente contrapposizione a quella della figurazione, lungi dal contestare questa riduzione del visibile al leggibile, la conferma infatti incondizionatamente. Rispetto a che si darebbe infatti "astrazione"? Questa si definisce soltanto per differenza a partire dal pienamente leggibile, il quale, evidentemente, continua a funzionare come paradigma di riferimento. L'astrazione inizia dove finisce la leggibilità del quadro. Il che significa che, di fatto, il senso è riconosciuto presente, operante, efficace, solo dove si dà qualcosa che può essere tradotto in significati linguistici. Dove tale possibilità mancasse, come nella cosiddetta pura astrazione, verrebbe meno automaticamente anche il senso: non vi sarebbe che un "puro visibile", insignificante (che dice letteralmente nulla), privo di pensiero, carico semmai solo di valori emotivi, psicologici o, peggio ancora, simbolici, i quali, sia chiaro, per essere portati ad intelligibilità necessitano comunque ancora del discorso di accompagnamento del critico o dello psicoanalista. Sia che si parteggi per la figura, sia che la si voglia abbandonare, si esclude insomma che l'immagine in quanto tale, nella sua autonomia e nella sua differenza costitutiva rispetto all'ordine del discorso, possa pensare, possa manifestare un senso. Comunque si afferma il primato della riflessione, del concetto, della poetica - in ultima analisi, della theoria - sulla pratica raffigurativa.
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Per questo una ricerca come quella condotta da Angelo Titonel è utile. Essa mette in discussione questo paradigma ed impegna il critico in un ripensamento del suo apparato categoriale di base. Si prendano in considerazione, ad esempio, i suoi treni oppure le presenze umane, che come figurine ritagliate disabitano dei non-luoghi metropolitani. È la stessa acribia illustrativa con la quale vengono riprodotti - quei fumi ironici che s'innalzano in modo quasi oleografico, quei corpi stanchi che indossano volti privi d'anima - a compromettere la riconoscibilità di ciò che viene presentato sulla tela. Titonel non ha bisogno di scrivere sotto l'immagine che essa non è quello che rappresenta. È sufficiente la pittura, usata con una sapienza straordinaria e con falsa immediatezza, a smentire la rappresentazione. "Questo non è un treno, questa non è una stazione, questi non sono esseri umani" sembrano ripetere i suoi quadri. Ciò che l'ordine del discorso identifica, la pratica della pittura smentisce, esibendo un senso, che, sovvertendo la raccomandazione di Diderot, non si lascia per principio tradurre in significato, un senso che solo la pittura è in grado di sondare e di presentare. La pittura frequenta infatti una verità del mondo che non è quella rivelata dalla parola. Il suo rigore non è quello del sillogismo. La sua forza persuasiva non è quella della retorica. La sua capacità critica non è una forma di dialettica.
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Titonel è stato iniziato al mistero che accomuna coloro che, nella pittura, si misurano con una "nuova oggettività". Con quest'espressione non si fa riferimento a quanto di leggibile si depone sulla tela. La figura non è l'elemento rassicurante che conferma le aspettative del fruitore, riproducendo gli aspetti familiari o insoliti del suo mondo. L'oggettività è "nuova" quando a venire in primo piano, sotto l'apparenza di un significato, di una forma riconoscibile, è l'assolutamente indescrivibile. Ma tale indescrivibile, che la pittura presenta, non è l'insignificante, non è il "puro visibile" carico di chissà quali valori emotivi. Esso è piuttosto, per usare una bella formula di Louis Marin, un resto dell'immagine, "come se questa si trovasse, a causa del suo medium espressivo, il visuale, l'iconico, in eccesso in rapporto al discorso che tenterebbe di dirla, incommensurabile ad esso". L'indescrivibile è l'immagine come resto: come ciò che resterebbe fuori dal discorso anche quando questo avesse detto tutto. Ogni autentico gesto pittorico scommette su questo resto intransitivo. Ne fa la propria verità, il modo specifico in cui il mondo "accade" in pittura. Ciò che l'ordine del discorso confina nell'ambito del residuale diviene così la dimora abituale del pittore, lo specifico senso che egli non si stanca mai di presentare e di ripetere. Al rapporto di subordinazione del visibile al leggibile si sostituisce allora l'esperienza paradossale di una loro reale incommensurabilità: è possibile dire tutto quello che c'è sulla tela, ma con ci&0grave; non si è ancora detto nulla della verità del quadro.
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Alcuni quadri di Titonel hanno da questo punto di vista una vera e propria valenza programmatica, se non addirittura didattica. In strani dittici, che disturbano tanto gli ortodossi cultori della figurazione quanto i loro fieri avversari iconoclasti e astratti, accanto a faccioni di treno, ingressi di sottopassi o grandi orologi troviamo dei segni indecifrabili, macchie di pittura pura bellissima e inafferrabile. Altri quadri inscenano uno strano confronto tra figure umane rese con gusto foto-realista e sfondi astratti, sapientemente composti. Non si tratta, credo, né di citazioni, né di semplici contrasti percettivi. In queste composizioni, che rappresentano lo sviluppo estremo della ricerca di Titonel, la figura linguisticamente trasponibile e il suo resto d'immagine vengono piuttosto presentate insieme. Lo spettatore è chiamato così a saltare bruscamente dall'una all'altra. Grazie a questa oscillazione, egli fa così esperienza del modo in cui la verità accade in pittura. All'occhio insaziabile del pittore il mondo non si presenta mai infatti senza un residuo indecifrabile. Esso contiene sempre più cose di quelle nominate dal linguaggio. E ciò che manca al mondo "detto", "parlato", "significato" è per il pittore proprio l'essenziale: è il senso stesso di quel mondo, vale a dire il modo assolutamente singolare in cui al suo sguardo quegli oggetti assolutamente normali - treno, corpi, sottopassi - sono dati. Questo senso s'incarna in qualcosa di meno che un'immagine: in un gesto, nella direzione impressa ad una linea, nella ripetizione ossessiva di un motivo appena abbozzato (si vedano a questo proposito le primissime cose di Titonel, in particolare gli "studi" del '62-'67).
Guardando queste macchie torna alla mente la bellissima definizione che del senso diede Bergson: "più movimento di pensiero che una cosa pensata, più una direzione che un movimento". D'altronde il senso non si dà mai come tale, indipendentemente da un significato; il senso è sempre il senso di qualcosa di determinato e di determinabile, è il senso di questo treno, di questo sottopasso, di questo orologio. Un senso in sé, privo del suo strutturale riferimento al significato, sarebbe una pura insignificanza, un'astrazione nel senso deteriore del termine. Per la stessa ragione, senza senso sarebbe una figura totalmente trasparente al concetto, priva cioè di un punto di incrinatura nel quale essa trascenda i confini stessi del suo significato.
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Per essere adeguata al modo in cui la verità si dà in pittura la sentenza di Diderot andrebbe allora sensibilmente modificata: condizione necessaria, anche se non sufficiente, di un buon quadro è la sua incommensurabilità alla descrizione. Se esso non presenta un tale eccesso scade ad illustrazione di un significato già dato. Si tratta del rischio che incombe su tutta la pittura cosiddetta "figurativa" ed in particolare su quella che crede di sfuggirvi facendo ricorso a montaggi surrealistici, a simbolismi di varia natura o alla sublimità dei propri soggetti. Se la raffigurazione non si controlla su questo punto essa presta il fianco all'obiezione di coloro che, da tempo immemorabile, dopo averla screditata come un'inutile replica del reale, la confinano nella riserva indiana della didattica per immagini (Platone).
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Che Angelo Titonel, brillante grafico pubblicitario nei primissimi anni Sessanta, abbia improvvisamente lasciato questa redditizia carriera per perdersi nel sogno della pittura, non è allora un semplice dato biografico. La comunicazione pubblicitaria rappresenta infatti per certi aspetti la più radicale subordinazione del visibile al dominio del leggibile. La sua efficacia è direttamente proporzionale alla sua transitività, alla riconoscibilità immediata del messaggio (il prodotto) che veicola. Al tempo stesso, il pubblicitario, con un'intensità sconosciuta a chi si è formato nelle Accademie, dove anche le più sublimi immagini decadono subito ad oggetti dell'erudizione storiografica, fa esperienza della potenza occulta delle immagini. Egli sa che queste, lungi dall'essere soltanto un veicolo, agiscono, pensano rigorosamente, mostrano sensi inauditi. Ed è anzi solo grazie a questa loro autonoma efficacia che possono svolgere cosė bene la funzione comunicativa che sono chiamate a supportare. Se allora la pubblicità è un'ottima scuola non è perché educhi la mano, ma perché familiarizza con il pensiero che abita l'immagine, con la sua logica paradossale. Ma raggiunta questa consapevolezza, la subordinazione dell'immagine alla comunicazione efficace non è più sopportabile. Il visibile reclama tutto per sé lo sguardo del pittore. Ciò che in esso s'inscrive ancora come contenuto - perché il visibile è pur sempre il visibile di qualcosa - funziona adesso solo come evento, come occasione, come alibi della pittura. Divenuto maggiorenne, il gioco della raffigurazione si fa intransitivo e autoreferenziale. Non per mancanza di serietà o per gusto dell'evasione, ma perché ora il mondo con le sue cose quotidiane e i suoi significati triviali (treni, sottopassi, orologi ecc.) è incontrato nello spazio demònico della pittura, come ciò che resta sempre da dipingere anche quando tutto è stato detto.